Il mio spazio fotografico
Riflessioni, racconti e approfondimenti sul mondo della fotografia, tra tecnica, emozione e visione personale.
Benvenuti in questo spazio, nato dal desiderio di condividere la mia esperienza di fotografo e la passione per l’immagine in tutte le sue forme.
Qui parlerò di fotografia analogica e digitale, di ritratti, di cultura visiva, e dei progetti che porto avanti anche attraverso la mia associazione.
Un luogo dove la tecnica incontra la sensibilità, e dove ogni scatto è una storia da raccontare.

Il mio legame con la fotolitografia: dove tutto è cominciato
La mia avventura nel mondo della fotografia è iniziata in un ambiente oggi quasi scomparso ma, per me, ancora vivido nella memoria: la fotolitografia. Prima ancora di impugnare la macchina fotografica con consapevolezza artistica,
passavo le giornate tra luci rosse, pellicole, densitometri e lastre di alluminio. Era un mondo fatto di precisione, pazienza e conoscenza profonda della luce e della materia. È lì che ho imparato a leggere le ombre, a dosare i contrasti
e ad apprezzare l’importanza del dettaglio: le stesse basi che ancora oggi guidano il mio lavoro da fotografo.
Cos’è la fotolitografia?
La fotolitografia è stata, per molti decenni, il cuore dell’industria grafica. Una tecnica che consentiva di trasferire immagini, testi e disegni su supporti fotosensibili per realizzare le matrici di stampa. Senza questo passaggio,
nessun quotidiano, catalogo, libro o manifesto avrebbe potuto vedere la luce. Era un ponte tra l’arte e la tecnica, tra la fotografia e la stampa.
A differenza della fotografia fine art, dove l’espressività domina, la fotolitografia chiedeva rigore. Ogni negativo doveva essere perfetto, ogni esposizione dosata al secondo. Non c’era margine d’errore. Eppure, in questa apparente
rigidità, c’era bellezza: quella dell’artigianato tecnico, quella della luce che incide la materia.
Il processo fotolitografico in breve
Il procedimento cominciava con la ripresa fotomeccanica: l’originale veniva fotografato con speciali fotocamere di grande formato, spesso montate su banchi ottici enormi, per ottenere negativi ad alta precisione.
Si passava poi alla camera oscura, dove si sviluppavano i negativi e si realizzavano le separazioni dei colori in CMYK (ciano, magenta, giallo, nero), ciascuno su una pellicola differente.
Queste pellicole venivano montate manualmente su fogli trasparenti, allineate con cura millimetrica, e successivamente usate per esporre lastre di alluminio fotosensibili tramite potenti lampade UV.
Il risultato? Una matrice perfetta per la stampa offset, pronta a trasferire su carta tutto ciò che l’occhio umano poteva vedere e oltre.
Un sapere da non dimenticare
Oggi, in un’epoca dominata dal digitale, la fotolitografia può sembrare un ricordo remoto. Ma per chi, come me, ci ha lavorato, è un’eredità indelebile. Non solo per il valore tecnico, ma per l’approccio mentale che ha lasciato: attenzione
al dettaglio, rispetto per il processo, consapevolezza della luce.
Spiegare a un giovane cosa fosse una pellicola ortocromatica, come si faceva una mascheratura, o perché si ritoccava con la grafite sul negativo, è come raccontare una favola antica. Eppure, c’è molto da imparare da quelle favole.
La manualità, il controllo totale dell’immagine, la conoscenza fisica dei materiali sono valori che il digitale, pur nella sua comodità, spesso trascura.
Una memoria che vive nella fotografia
Ogni volta che realizzo un ritratto in bianco e nero, ogni volta che sviluppo una pellicola o stampo in camera oscura, sento ancora il respiro lento e cadenzato di quelle giornate in laboratorio. La fotolitografia non è stata solo
un mestiere: è stata una scuola di vita e di visione. E anche se le tecnologie cambiano, il modo in cui si guarda la luce – quello, no. Quello resta.